B U R Q A
La condizione della donna nei “mondi” islamici
01.02.2014
di Anthony Cormaci
Le grandi religioni hanno fortemente inciso nella formazione dei popoli.
Non sempre l’uomo ha saputo farle convivere e, nei secoli, le ha coltivate
spesso contrapponendole, rendendo difficile la pacifica osservanza di ogni “credo”.
L’ISLAM, religione della tolleranza e dell’amore di un solo DIO e della solidarietà verso i fratelli più deboli è un “credo”, semplice ed univoco, che non deve essere distorto o peggio “estremizzato”.
Nel tempo, però, ha assunto mille volti, moderato, benevolo, intollerante,
ottuso.
L’ISLAM significa “dedizione a Dio” ed il Corano regolamenta la vita quotidiana dei credenti verso l’amore, la solidarietà e la pace.
Tuttavia la stretta relazione tra la religione e le componenti sociali e politiche è sempre presente nei vari Paesi “islamici” ed é anche alla base dei contrasti tra gli stessi Stati, che interpretano in maniera diversa le leggi coraniche: si passa dall’utopia di Touba ove convivono tradizioni religiose e tecnologie moderne, all’estremizzazione delle regole concepite dai “fondamentalisti” o “integralisti”.
Pur tuttavia, la donna nel mondo islamico ha sempre avuto una collocazione di marginalità.
Il mondo occidentale ha appreso, a mezzo del forte impatto dei “media” (giornali e Tv), la condizione femminile in occasione del rovesciamento del regime “talebano” avvenuto in Afganistan.
I cosiddetti studenti coranici (i talebani) avevano estremizzato le leggi coraniche a danno sopratutto della donna.
La donna (madre, sorella e moglie nonché figlia) non poteva avere la dignità di persona e non aveva il diritto di lavorare -alla stregua dell’uomo-.
Una serie infinita ed umiliante di restrizioni (non ancora del tutto riscattate) aveva ridotto ad un inferno la vita delle donne in questo Paese: non potevano uscire in strada se non coperte da un ruvido manto, il BURQA, che le copriva dalla testa ai piedi. E, guai a “ridere” in strada (un uomo qualsiasi aveva il diritto di picchiarle in presenza di tale “reato”!). Non era consentito loro ricevere amici a casa in assenza del marito.
Non potevano rappresentare la famiglia. Rimaste vedove non avevano il diritto di rifarsi una famiglia né lavorare per mantenere la prole.
Esse avevano l’obbligo solo della soggezione alla volontà dell’uomo (marito, padre o fratello). Nessuna parità di diritti tra marito e moglie .
La musica era una cosa “sconcia” da evitare assolutamente, e la proiezione di un film (anche se storico) era proibita e i locali venivano chiusi.
Era vietata anche la vendita di “palloncini”.
Tutto questo e particolari ancora più abietti sono stati descritti nei giorni di informazione mondiale dell’intervento militare in Afganistan, dopo il lugubre e terribile 11 settembre del 2001.
Ha scritto Tatiana Pellegri – Bellicini in “Donne in ombra o ombre di Donne?”:
“Le restrizioni imposte dai talebani alle donne, non si limitavano al “burqa”. Le donne non potevano esercitare una professione fuori casa. Non potevano avere delle attività all’esterno della dimora se non accompagnate da un parente stretto, il padre, il fratello o il marito.
Non potevano trattare con negozianti maschi, non potevano essere curate da medici uomini. Non potevano studiare nelle scuole. Venivano picchiate se avevano le caviglie scoperte, o se non osservavano le rigide regole dell’abbigliamento.
Non potevano usare cosmetici, non potevano parlare o dare la mano a uomini non appartenenti alla famiglia.
Non potevano ridere ad alta voce,non potevano indossare i tacchi perché il rumore dei passi poteva suscitare pensieri impuri negli uomini.
Non potevano apparire in televisione, né praticare sport. Non potevano uscire sul balcone delle loro case. I sarti uomini non potevano cucire indumenti femminili. Non potevano frequentare i bagni pubblici e per viaggiare dovevano usare solo bus “per donne”. Nessuna fotografia raffigurante donne poteva essere appesa alla parete di casa!
Le regole erano queste e tante altre, ma IL BURQA le riassume tutte”
La donna, però, non aveva vita facile neanche nella quotidianità.
Alla sua condizione di estrema soggezione si aggiungeva la negazione dei “diritti” che nel mondo occidentale sono considerati elementari e primari.
Le donne, umiliate, coltivavano (e coltivano tutt’ora) un desiderio prepotente: quello di sapere che le loro figlie potranno avere un destino differente e vivibile. Si sono coalizzate, rischiando la vita in ogni momento.
La Rawa (Associazione rivoluzionaria delle Donne Afgane) fondata nel 1977 da alcune agguerrite donne afgane, ha questo scopo: far conoscere al mondo occidentale, documentandole, le terrificanti condizioni delle donne.
Sul “The Guardian” londinese del 7 marzo 2002, infatti, è stato pubblicato un articolo di Marian Rawi intitolato “Dietro al Burqa”, con cui l’autrice evidenzia che il terrore diffuso non solo dai talebani ma anche dai cosiddetti “signori della guerra” dell’Alleanza, ha indotto poche donne a togliersi il burqa, ancora simbolo di paura!
La dottrina coranica pur essendo un inno all’amore, alla pace, alla tolleranza ed alla solidarietà non consente niente di tutto ciò, in tanti Paesi africani, asiatici ed arabi, ove ancora la donna, in silenzio, subisce una sottomissione umiliante da parte dell’uomo.
E questo ”silenzio” secolare ha procurato “un assordante rumore” solo
oggi !
A questo punto facciamo una considerazione: l’Uomo, quest’uomo(!), deve vivere un’altra vita per imparare ad amare i propri simili.
La mancanza d’interiorità lo fa sprofondare nell’abisso senza fine dell’umana crudeltà.
Il suo fanatico credo riduce le madri e le sorelle a donne “oggetto”, ed egli non comprende che il far celare – sotto il ruvido manto – la propria donna è un segno tangibile del suo estremo egoismo!